Brexit, l’elezione di Trump e le inquietudini in numerosi stati della Ue sono i sintomi di un nuovo nazionalismo, che fonda le sue radici nell’avversione verso la globalizzazione e i suoi effetti quanto a flussi migratori, riorganizzazione delle catene produttive e delocalizzazione. E verso i trattati di libero scambio come Tpp (Trans Pacific Partnership) e Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement). Non a caso la Banca Mondiale lo ha considerato uno dei maggiori presupposti sui quali ha poggiato previsioni al ribasso per l’economia mondiale nel 2017. Ma un ritorno a politiche protezionistiche è concretamente realizzabile?
Chiaramente no. L’incremento di dazi e barriere al commercio è generalmente vietato (salvo specifiche eccezioni) dall’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Interventi protezionistici comporterebbero, quindi, un’inevitabile lunga serie di ricorsi all’Organo di soluzione delle controversie dell’Omc, che ha il riconosciuto potere di imporre agli stati membri di riportare la propria legislazione in conformità agli impegni sottoscritti. Ove lo stato soccombente persista nella sua violazione, il ricorrente potrà imporre sanzioni commerciali a titolo di contromisura (ossia applicare dazi o altre misure restrittive nei confronti dello Stato inadempiente). La conseguenza sarebbe una vera e propria escalation di barriere, con effetti disastrosi sugli scambi commerciali e le economie nazionali.
Inoltre, secondo un recente studio della Banca Mondiale, in poco più di 20 anni la povertà estrema nel mondo si è più che dimezzata. I principali autori di questo fenomenale risultato sarebbero la sostenuta crescita economica e la collegata fase di globalizzazione. Tuttavia, nei paesi industrializzati si è assistito a una polarizzazione della ricchezza che ha, probabilmente, contribuito alla demonizzazione dei mercati mondiali integrati. Paradossalmente, proprio i nuovi accordi che cercano, almeno in parte, di far fronte a tali squilibri sono rigettati dai nuovi leader. Ci si chiede quindi, in presenza di norme internazionali che impediscono misure protezionistiche, quali siano effettivamente le loro strategie in materia di politica commerciale.
L’Amministrazione americana, con il nuovo corso del Presidente Trump, ha in programma una serie di iniziative volte a limitare le importazioni di merci dall’estero, anche con l’utilizzo di dazi. Ma, a detta degli esperti di commercio internazionale, rischia l'effetto boomerang, non solo sul Nafta ma anche nel caso delle migliaia di nuovi posti di lavoro già garantite in Usa, se vogliamo anche opportunisticamente, da diverse case automobilistiche e anche Amazon e Wal-Mart.
Il problema nascerebbe dal fatto che, se si assume oggi a costi maggiori, sarà un problema domani per le aziende produrre di più ed esportare. Gli Stati Uniti hanno un grande mercato interno e forse possono correre questo rischio, ma il prezzo da pagare potrebbe essere comunque alto. Senza contare che il protezionismo disincentiva l’innovazione, che funziona solo quando c’è vera concorrenza. Wilbur Ross, responsabile per il Commercio dell’Amministrazione Trump, ha parlato dei dazi doganali che «avranno un ruolo importante nel correggere le pratiche inappropriate". Riguardo la Cina per esempio, Trump aveva avvertito che imporrà il 45% di dazi sui prezzi dei prodotti cinesi che entrano in America. E ha anche minacciato di stabilire dazi del 20% con il Messico, che invece grazie al Nafta, firmato nel 1994 da Bill Clinton, gode della assenza di tariffe. Proprio sul Nafta Ross ha ricordato che ridiscuterà in dettagli con il Canada e con il Messico.
Sarebbe utile però che Trump spiegasse agli americani che introdurre dazi, contingentamenti e protezioni contro i prodotti importanti avrebbe come conseguenza un aumento dei prezzi di gran parte dei prodotti in vendita nei negozi americani, dagli smartphone ai jeans, dalle televisioni ai Pc, etc.
Un aumento del 45% dei prezzi dei prodotti importati dalla Cina a sua volta vorrebbe dire nell’immediato che le famiglie americane si impoverirebbero: salari reali più bassi. Le importazioni dalla Cina hanno consentito, negli ultimi venti anni, a tante famiglie non abbienti americane di comprare a prezzi bassi tantissimi prodotti.
Una proposta di legge che sta facendo discutere e che spiega quali saranno le mosse probabili degli uomini di Trump, si chiama BAT, Border Adjustment Tax (tassa di rettifica alla frontiera), e prevede che le imprese statunitensi possano escludere i ricavi da esportazioni dal calcolo del proprio imponibile fiscale, ma che non possano più detrarre i pagamenti a fornitori esteri, incluse proprie controllate. Con tale proposta, che agisce sul reddito d’impresa attraverso i suoi flussi di cassa, le esportazioni statunitensi diverrebbero più competitive e le importazioni più onerose. Il beneficio alla bilancia commerciale indotto dalla tassa di frontiera determinerebbe un apprezzamento del dollaro, che compenserebbe la maggiore onerosità delle importazioni.
Il pacchetto fiscale di Ryan prevede inoltre che gli investimenti vengano interamente spesati nell’esercizio in cui sono sostenuti, e non più ammortizzati, e l’eliminazione della deducibilità degli interessi pagati dalle imprese sui finanziamenti. Se tale “tassa di confine” superasse l’esame dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vi sarebbero pesanti ricadute sui settori economici statunitensi: le aziende del commercio al dettaglio, che importano massicciamente dall’estero, soprattutto beni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento) e rivendono con margini unitari molto bassi, finirebbero nei guai. Il primo nome che balza alla mente è quello di Walmart, azienda non particolarmente amata dai lavoratori e dalla sinistra ma il cui dissesto sarebbe una bomba sociale, oltre che economica.
Per contro, le imprese che esportano, investono ed assumono massivamente finirebbero in costante credito d’imposta, ed ogni anno riceverebbero rimborsi fiscali miliardari e politicamente poco digeribili. La forte rivalutazione del dollaro indotta dall’aggiustamento d’imposta equivarrebbe ad una stretta monetaria globale, e causerebbe seri problemi a molte aziende estere indebitate nel biglietto verde, soprattutto sui mercati emergenti. Vedremo se ed in che modo Trump accoglierà la proposta Ryan ma i rischi di un terremoto per l’economia mondiale non appaiono lievi.
L’idea di base di Trump è che le aziende americane tornino a produrre negli Stati Uniti, perché pensa che il successo della sua presidenza si giocherà soprattutto sull’economia e l’occupazione. Spera però che tornino di loro volontà, quando scopriranno le condizioni favorevoli create dalla sua amministrazione. Di fatto ha cominciato l’offensiva con il settore automobilistico, con un patto proposto che chiede di riportare la produzione negli Usa, in cambio di concessioni fiscali e alleggerimenti delle regole. In particolare le misure ambientaliste, come quella sulle emissioni e i consumi imposta dall’amministrazione Obama, che richiede di arrivare a percorrere 54 miglia con un gallone di carburante entro il 2025. Il Presidente ha detto che è pronto a rivedere questi obblighi, pensando che simili concessioni spingeranno le aziende a investire in America, perché bilanceranno la perdita dei vantaggi che venivano dalla possibilità di produrre in Paesi dove il costo del lavoro è molto più basso.
Questa svolta nella politica economica internazionale avrà un impatto anche in Italia. Vale ricordare che le nostre esportazioni negli Usa superano 40 miliardi di euro, il 10% del totale, seconde solo a Germania e Francia. Certo, non c’è protezionismo che possa interamente sostituire il Made in Italy nel mercato più ricco del mondo. Tuttavia, come sta già succedendo nel settore dell’auto (che assieme alla meccanica rappresenta un terzo dell’export italiano in Usa), la nuova politica commerciale americana spingerà le multinazionali ad accrescere le produzioni interne, con effetti a cascata sulle reti di fornitura locale.
La politica protezionistica degli Usa non potrà che scatenare reazioni a catena negli altri paesi - dal Messico, alla Cina, all'Europa - riducendo ulteriormente gli scambi e, di conseguenza, indebolendo tutte le economie. Una situazione simile si era presentata negli anni ’30, quando per rispondere alla crisi del 1929 molti paesi, fra cui gli Usa, adottarono una politica protezionistica tramite dazi e svalutazioni competitive. Come sappiamo, l’esito fu disastroso per l’economia e tragico per la politica. La soluzione ai problemi della globalizzazione non è allora bloccare le importazioni e gli investimenti esteri, bensì redistribuire meglio i benefici del commercio internazionale tramite una fiscalità più equa, politiche attive del lavoro e, soprattutto, con più istruzione.
La globalizzazione ha favorito il calo di prezzi di tantissimi prezzi e di questo si sono avvantaggiati soprattutto le famiglie consumatrici a reddito medio-basso. Il protezionismo inoltre farebbe scendere la pressione competitiva sul mercato americano e quindi la spinta al miglioramento dei prodotti sarebbe più debole. La qualità dei prodotti in vendita in America peggiorerebbe. Quindi prezzi domestici più alti e qualità peggiore, salari reali in calo ed effetti sull’occupazione tutti da verificare nel medio termine.
Diciamo la verità, i presunti benefici del protezionismo che promette Trump, potrebbero in parte esistere se la protezione fosse unilaterale. Gli Usa mettono dazi e contingentamenti, proteggono il mercato domestico ma gli altri paesi restano immobili e non adottano contromisure. Nella storia il protezionismo difficilmente è rimasto un atto unilaterale. Il protezionismo di solito scatena guerre commerciali.
Nel mondo del 21esimo secolo, in cui la produzione industriale ha carattere globale, export e import non sono facilmente separabili: se si guarda al top 1 per cento delle imprese esportatrici americane, il 90 per cento sono anche importatrici. A un rinnovato protezionismo americano, i partner commerciali risponderebbero con misure analoghe. Marcus Noland e altri esperti del Peterson Institute of International Economics stimano che il piano Trump potrebbe quindi scatenare una guerra commerciale che manderebbe in recessione l’economia statunitense e costerebbe più di 4 milioni di posti di lavoro nel settore privato.
È poi difficile immaginare che un conflitto commerciale possa essere combattuto, nel mondo odierno, senza che si sviluppino tensioni geopolitiche altrettanto rilevanti. Per un’Europa che si trova sotto pressione esterna – nel fronteggiare la crisi dei rifugiati – e interna – nel contrastare tensioni nazionaliste e populiste sempre più forti –potrebbe essere una prova molto difficile da superare.
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